Ambrosi, Melozzo degli, detto Melozzo da Forlì nacque nel 1438 in Forlì, dove la sua famiglia risiedeva da almeno quattro generazioni.
Nessun documento ci dà notizie certe della sua attività fino al 1477, quando era a Roma al servizio di Sisto IV. Prima di questa data è ricordato in atti notarili che accertano la sua presenza in Forlì nel 1460 (21 aprile) e nel 1461 (2 dicembre), per acconsentire alla vendita, da parte della madre rimasta vedova, di alcuni beni; e nel 1464 (14 dicembre) per cedere i propri diritti sull'eredità paterna; non se ne può dedurre se soggiornava nella sua città o se vi si trovava occasionalmente.
Tutto quanto riguarda la sua formazione, i suoi viaggi e i suoi contatti con altri artisti, in totale circa vent'anni di attività, resta quindi nel campo delle ipotesi. La sua attività dovette essere molto notevole, tale da giustificare l'importanza degli incarichi affidatigli in Roma, in un momento in cui vi convenivano al servizio del pontefice i maggiori pittori, e la fama di cui godeva già nel 1478, quando Giovanni Santi lo ricordava nella sua Cronaca rimata, vantando rapporti di amicizia con lui e attribuendogli una lode non generica, ma indicativa di quello che doveva essere già uno degli aspetti particolari della sua arte, e che più impressionò i contemporanei: "... Melozo a me sì caro / che in prospettiva ha tanto steso il passo''.
La critica contemporanea, senza negare una possibile ma non determinante conoscenza delle opere del Mantegna, ha messo il punto su alcuni fatti artistici che aiutano a chiarire il problema: l'opera di Piero nella vicina Rimini (già nel 1451), il suo passaggio per città dell'Emilia e delle Marche, la sua lunga familiarità con la corte dei Montefeltro, accertano che Melozzo ebbe in giovinezza facilità di vederne le opere e forse di legarsi di personale conoscenza con lui; d'altra parte, l'innegabile influenza che Bramante rivela di aver subito da Melozzo nei suoi affreschi di Bergamo (del 1477) ci dà la certezza di un precedente incontro tra i due artisti, che non poté avvenire se non ad Urbino, dove la presenza di Melozzo può trovare una conferma anche nel già ricordato legame di amicizia con Giovanni Santi; infine, il fatto che il processo di italianizzazione di Giusto di Gand e del Berruguete, che lavoravano alla decorazione pittorica della biblioteca e dello studiolo ducali, si svolge in modi melozziani, dimostra che almeno una parte dell'attività di Melozzo precedente la venuta a Roma ebbe campo nell'ambiente urbinate, fucina di cultura umanistica, fervido di contatti artistici e di scambi durante il ducato di Federico. In alcune figure dei Filosofi, nelle quattro Allegorie delle Arti Liberali destinate alla biblioteca, e soprattutto nel Ritratto del Duca con il piccolo Guidubaldo, anche se l'esecuzione non può attribuirsi allo stesso Melozzo, pure la sua personalità appare così vivamente dominante da indicare una stretta collaborazione tra lui e il giovane Berruguete, nel senso che quest'ultimo abbia tradotto cartoni o almeno seguito concetti direttivi e suggerimenti di Melozzo. Poiché la data 1476 segnata nello studiolo sembra indicare il compimento della decorazione, dobbiamo dedurne che la permanenza di Melozzo in Urbino, non sappiamo quando iniziata, si protraesse sino a circa quell'anno. Vi resta di lui una unica opera sicuramente autografa, l'austero Cristo benedicente, ora in quella Galleria Nazionale (di provenienza non sicura, ma certo da una chiesa della città o dei dintorni immediati), che con grande semplicità di mezzi compositivi giunge a una solenne grandezza spaziale.
I precedenti di questo periodo urbinate sono da ricercare in un gruppo dì opere che, per la meno definita impronta stilistica, dovrebbero riferirsi a un periodo più giovanile; ma la lacunosità dei confronti e il cattivo stato di conservazione, che in quasi tutte ne rende difficile la lettura, hanno portato a giudizi e quindi a conclusione discordi.
Provengono da Forlì, e potrebbero documentare un attività di Melozzo nella sua città natale, il Pestapepe, già insegna di spezieria (Forlì, Pinacoteca), e le due ante d'organo con l'Annunciazione nel recto e due figure di Santi, mutile, nel verso (Firenze, Uffizi); ma le due opere non trovano concorde la critica nell'attribuzione. La prima per i suoi caratteri ferraresi è attribuita al Cossa nel momento di Schifanoia; per la seconda le riserve sono suggerite dal cattivo stato di conservazione, soprattutto delle due figure esterne, sfigurate da ridipinture.
Altrettanto incerto è il giudizio sul gruppo - non omogeneo - di dipinti esistenti in Roma, per i quali si è supposto un soggiorno romano di Melozzo verso il 1470. Fra questi è quasi concordemente ritenuto autografo il S. Marco Evangelista (basilica di S. Marco), forse originariamente uno stendardo, purtroppo molto abraso. Più problematica è l'attribuzione del S. Marco papa, che ha subìto le stesse vicende attributive dell'altra tela, benché tanto più scarsamente caratterizzato, del S. Sebastiano con due donatori (Museo di Palazzo Venezia), oggi quasi unanimemente attribuito ad Antoniazzo; del Santo pontefice; e dell'Annunciazione del Pantheon. Infine, forzando l'interpretazione di un documento, è stata supposta ancora anteriore a queste opere, del 1460, la copia della Madonna bizantina di S. Maria del Popolo (Montefalco, Museo), identificata con quella fatta dipingere da Alessandro Sforza signore di Pesaro, ch'è ricordata in un epigramma in cui se ne magnifica l'autore, Melozzo, come emulo di S. Luca. L'alta qualità fa sì che la critica sia quasi tutta concorde nella attribuzione di questo dipinto, che però, per il suo carattere di copia, non offre elementi per una precisazione di data.
La presenza di Melozzo a Roma è certa nel 1477. Alcune note di pagamento si riferiscono all'affresco con Il Platina inginocchiato dinnanzi a Sisto IV, dipinto per la Biblioteca del Pontefice (il locale attualmente detto della Floreria), donde fu distaccato nel secolo scorso e trasferito alla Pinacoteca Vaticana.
Fra le poche opere superstiti di Melozzo questa è la sola che ha una data sicura, ed è l'unico affresco monumentale, autografo, che ci è pervenuto nella sua integrità. È quindi uno dei capisaldi per la conoscenza dell'artista. Se il riferimento a Piero della Francesca è palese nella saldezza delle architetture corporee e nella chiara luminosità diffusa, profondamente diversa è la visione pittorica di Melozzo; la sua realtà non è eterna, ma contingente; le immagini ch'egli ci presenta non sono incorruttibili, fuori del tempo, ma puntualmente definite nel loro aspetto fisico, esaltate nella loro individualità; e l'ornatissima architettura, in prospettiva sfuggente -giustificata dall'originaria ubicazione dell'affresco -è così ricercatamente illusiva che se ne è voluto vedere un riscontro in ambienti reali.
Con quest'opera, celebrativa di un avvenimento dei primi anni del papato di Sisto IV, Melozzo è alle dipendenze dei Della Rovere. Pure legata al nome dei Della Rovere è l'opera di Melozzo più celebrata, della quale purtroppo restano solo pochi frammenti: l'affresco dell'abside dei SS. Apostoli. Non se ne può precisare la data, che dall'iscrizione relativa ai restauri della chiesa, dovuti al cardinal nepote Giuliano (il futuro Giulio II), sembra debba porsi sotto il pontificato di Sisto IV. Il libero espandersi delle immagini sulla chiarità del cielo e il nuovo ardimento della concezione fanno tuttavia ritenere che alcuni anni intercorrano fra l'affresco del Platina e questa opera, preludio di ampiezze cinquecentesche.
Al sommo della conca absidale, entro uno stuolo compatto di angioletti, ascendeva il Cristo, e intorno grandi angeli musicanti si libravano in moto; in basso gli apostoli dovevano distanziarsi a intervalli regolari.
Quando l'abside fatiscente fu demolita all'inizio del '700, l'affresco era rovinatissimo, e se ne salvarono solo i noti frammenti: la figura del Cristo (scalone del Quirinale), due gruppi di angioletti, otto figure di angeli, quattro teste di apostoli (Pinacoteca Vaticana).
L'ultima opera di questo soggiorno romano dev'essere stata la decorazione - scomparsa - di una cappellina di S. Maria in Trastevere, ricordata nella guida del Mancini, ch'è da identificare con quella che il forlivese cardinale Stefano Nardini eresse e fece decorare nel 1484. Il 12 agosto di quell'anno moriva Sisto IV; nello stesso mese, secondo la testimonianza del Cobelli, Melozzo era a Forlì.
La datazione delle opere che debbono presumersi posteriori a quell'anno è di nuovo avvolta nell'incertezza. La decorazione della sagrestia del Tesoro di Loreto ebbe pure come committente un Della Rovere, il cardinale Girolamo Basso, preposto alla basilica dallo zio pontefice; ma non vi appare l'arme di Sisto IV, ed è verisimile la supposizione che sia stata eseguita dopo la morte di lui. Qui gli interessi prospettici sono dominanti, e il legame compositivo è dato dalla architettura dipinta: intorno alla cupola ottagona una cornice di potente aggetto sostiene ornatissimi pilastri fra cui si aprono finestre rettangolari; sulle cornici siedono isolate figure di Profeti; angeli immoti sono sospesi dinanzi alle finestre. Com'è noto, l'esecuzione fu per intero affidata ad aiuti (fra i quali si suppone fossero il Palmezzano e Giovanni Santi), sì che ne risulta una mancanza di unità fra la grandiosa concezione e la realizzazione pittorica. La decorazione, che doveva estendersi a tutte le pareti della sacrestia, fu interrotta dopo l'esecuzione della sola lunetta con l'Entrata di Gesù in Gerusalemme, anch'essa condotta da collaboratori.
Un atto di vendita del suo procuratore in Forlì indica che Melozzo nel 1489 è nuovamente a Roma. A questo periodo romano si attribuisce il mosaico della volta della cappella di S. Elena in S. Croce in Gerusalemme, ma anche per la datazione di quest'opera non vi è certezza né per indizi esterni né per particolarità di stile, alterato dalla tecnica stessa e da successivi rimaneggiamenti. Non è una concezione unitaria che presiede alla decorazione di questa volta, scompartita in quattro ovali con le immagini degli Evangelisti uniti al tondo centrale dov'è la mezza figura del Cristo benedicente. L'inaspettato arcaismo nella divisione dello spazio e la preziosa ricchezza degli ornati con fronde e uccelli possono esser stati suggeriti dagli avanzi del preesistente mosaico di Valentiniano III. Più chiara è l'impronta melozziana nelle figure di Santi entro nicchie degli arconi laterali.
Due note di pagamento, del 1493, ci informano della dimora di Melozzo in Ancona, dove dipingeva in una sala del Palazzo Comunale. Non si hanno altre notizie di questo lavoro, compiuto o interrotto poco dopo: il 18 maggio infatti Melozzo lasciava le sue robe in Ancona e partiva per Forlì, dov'è ricordato in due rogiti dell'anno successivo (del 28 febbraio e del 18 dicembre) per concessione a metà frutto di suoi poderi; in Forlì lo vide Luca Pacioli, che nella Summa de Arithmetica (Venezia, 1494) lo ricorda: "E in Furlì Melozzo con suo caro allievo Marco Palmegiani, quali sempre con libella et circino lor opere proporzionando a perfezion mirabile conducono''. Questo elogio di proporzione perfetta si addice alla cupola della cappella Feo nella chiesa di S. Biagio -distrutta in un bombardamento nella seconda guerra mondiale -che anche per ragioni storiche deve datarsi in quegli anni. In essa la concezione architettonica della cupola di Loreto appariva depurata da ogni elemento superfluo, ed era raggiunta un'altissima e coerente unità tra le figure dei profeti, espanse sul cerchio di base, e il digradare a zig-zag del cassettonato dipinto. L'impronta di Melozzo, dominante nella cupola nonostante l'intervento di aiuti, appariva tanto affievolita negli affreschi delle pareti da far ritenere che la morte gli avesse impedito di dirigere quella parte della decorazione.
Melozzo morì a Forlì nel 1494 e fu sepolto nella chiesa della SS. Trinità.
Oltre quelle citate, le opere più frequentemente attribuite a Melozzo, non senza contrasti, sono: il ritrattino di Fanciullo in profilo, supposto Guidubaldo da Montefeltro, nella Galleria Colonna di Roma; il Cristo benedicente della Galleria Sabauda di Torino; l'affresco col Cristo risorto sulla tomba del vescovo Juan Diego de Coca alla Minerva a Roma. Infine si è preteso di leggere il suo nome e la data 1475 negli affreschi del presbiterio di S. Giovanni Evangelista a Tivoli, oggi generalmente ritenuti opera di Antoniazzo, nel periodo di maggior accostamento a Melozzo. Si ha notizia di altre due decorazioni murali condotte con intenti prospettici, entrambe scomparse: la cupola della chiesa dei Cappuccini in Forlì, demolita nel 1651, e una cappella a Roma, in S. Maria Nuova.
Marco Palmezzano nacque a Forlì verosimilmente nel 1459.
Come evidenziano alcune opere firmate «Marchus de Melotius», la sua formazione si svolse a contatto con Melozzo degli Ambrosi detto Melozzo da Forlì, del quale Palmezzano fu il principale seguace. Da Melozzo, soprattutto nelle prime pale d’altare, egli riprese la costruzione prospettica, il senso di immota spazialità e la salda impostazione monumentale delle figure rese con forme nitide. La sua attività, documentata già nel 1484, fu assai lunga e lo impose in Romagna come indiscusso protagonista della più matura pittura prospettica, che egli coniugò con gli insegnamenti della scuola umbro-romana e di quella veneta.
La prima opera nota è la pala, commissionata e conclusa nel 1492, con la Madonna con il Bambino in trono tra s. Giovanni Battista e s. Margherita, dipinta per la cappella di S. Margherita nella chiesa di S. Maria Assunta a Dozza (Imola), con cornice architettonica progettata, come spesso avvenne, dallo stesso Palmezzano.
Di origine melozzesca sono la composizione monumentale, con il deciso primo piano delle figure, il controllo prospettico dello spazio, sottolineato dall’uso sottile delle ombre, e il disegno del cielo solcato da nuvole arricciate. Altri dati rinviano al supposto soggiorno romano, come il motivo del velo trasparente attorno al Bambino, presente in opere di Antoniazzo alla cui maniera va riferita anche l’attitudine pensosa della Vergine, riproposta da Palmezzano nella Sacra Famiglia con s. Giovannino e s. Maria Maddalena del Walters Art Museum di Baltimora databile al 1493-94. Emergono pure, nella pala di Dozza, riferimenti alla scuola umbra, nella definizione di alcuni dettagli, come le splendide spille-gioiello, ma anche avvisaglie, soprattutto nella figura del Battista, della conoscenza di capisaldi della pittura veneta, appresa attraverso il contatto con i capolavori pesaresi di Giovanni Bellini e di Marco Zoppo.
Del 1492 è anche l’affresco (trasportato su tela a Forlì nei Musei S. Domenico), con la Crocifissione, la Madonna e santi, già nell’abside della chiesa di S. Maria della Ripa, fatta erigere da Caterina Sforza, signora di Forlì.
L’opera richiama l’affresco lauretano con l’Entrata di Cristo sia nell’impostazione spaziale, resa con un punto di fuga molto alto, sia nell’apertura dell’arco a tutto sesto delimitato da due lesene ornate da candelabre. Riferimenti ai modi di Perugino sono riconoscibili nell’altissima Croce e nelle dolci espressioni delle figure astanti, come pure si rinvengono richiami ad Antoniazzo e alla cultura del grande affresco absidale di S. Croce di Gerusalemme.
Iniziando a reinterpretare la lezione di Melozzo, intraprese quel percorso evolutivo che lo avrebbe portato alla solidità spaziale e al pieno dominio dei mezzi espressivi. La costruzione prospettica di origine melozzesca, la metrica dolcemente ritmica di matrice umbro-romana e i grafismi di sapore antoniazziano sono qui resi in una scena di nuova complessità, vivacizzata dalla cura dei dettagli e dalla preziosità dei colori.
Fra il 1493 e il 1494, a fianco di Melozzo, definitivamente tornato in patria nell’ultimo anno di vita, Palmezzano lavorò alla decorazione della cappella Feo nella chiesa di S. Biagio in S. Girolamo a Forlì (distrutta nel 1944 durante un bombardamento, poi ricostruita). Degli affreschi (documentati da foto Alinari del 1938), alla morte del maestro rimaneva da dipingere, insieme ad altre minori decorazioni, la grande scena con le Storie e il martirio di s. Giacomo Maggiore.
Dal 1495 l’artista visse in patria concentrando la sua attività per i centri romagnoli e diventando il pittore di riferimento dell’aristocrazia locale. Frutto della raggiunta sintesi artistica è la grandiosa pala con l’Annunciazione (Forlì, Musei S. Domenico), datata al 1495-96 circa. Commissionata per la cappella dell’Annunziata nella chiesa del Carmine a Forlì, la tavola, in origine centinata (fu decurtata nel Seicento), si impose in Romagna come la più innovativa dell’epoca.
Ritenuta forse il capolavoro di Palmezzano, per il solenne equilibrio e l’ampio respiro della scena, l’opera si contraddistingue per il linguaggio figurale ancora legato a Melozzo, di cui il pittore, dopo la cappella Feo, rinsaldò la sintassi. Ma l’idea monumentale del portico abitabile e aperto sullo splendido paesaggio centrale risente delle soluzioni di Cima, del cui linguaggio vengono riproposti anche i tondi dorati nei pennacchi, mentre le colonne di marmo mischio e i capitelli pseudo-compositi rinviano a modelli belliniani.
Il riuscito innesto di caratteri veneti nel linguaggio di origine melozzesca contrassegnò le opere successive. Tra il 1496 e il 1497 l’artista dipinse, sempre per la chiesa del Carmine, un’altra pala, destinata alla cappella Ostoli, raffigurante S. Antonio Abate in trono tra s. Giovanni Battista e s. Sebastiano (Forlì, Musei S. Domenico), firmata, secondo una frequente invenzione dell’artista, con un polizzino dipinto.
Nella pala, in cui l’artista mise a fuoco quel rapporto fra figure, architettura e paesaggio, divenuto il suo tipico schema compositivo, la rappresentazione, impostata simmetricamente, è contenuta entro uno spazio architettonico strutturato su pilastri tuscanici decorati da grottesche, un motivo ornamentale che compare qui per la prima volta. Echi della scuola veneta, specialmente belliniani e cimeschi, si rinvengono nella figura del Battista (mutuata dalla pala di Dozza), mentre emergono anche elementi stilistici di matrice ferrarese.
Di poco successiva è la grande pala detta delle Micheline (Faenza, Pinacoteca comunale) raffigurante la Madonna con il Bambino in trono tra s. Michele Arcangelo e san Giacomo Minore e, nella lunetta, il Padre Eterno fra cherubini. Commissionata nel 1497 ed eseguita entro il 1500 per l’altare maggiore della chiesa della Compagnia di S. Michelino di Faenza, l’opera, uno dei massimi capolavori del pittore per nobiltà espressiva e intensità cromatica, riscosse un notevole successo e favorì all’artista altri incarichi in ambito faentino.
L’elaborazione di modelli stilistici e di iconografie di origine veneta proseguì nelle opere eseguite durante l’attività sempre più intensa di questi anni: nell’aulica e raffinata pala per la chiesa dei Minori Osservanti di Cotignola, ovvero l’Incoronazione della Vergine (1498-99 circa; Milano, Pinacoteca di Brera), riproposizione quasi integrale della pala pesarese di Giovanni Bellini; nella Testa mozzata di s. Giovanni Battista (Milano, Pinacoteca di Brera),probabile frammento della predella della pala di Cotignola; nell’elegante Ritratto di uomo (1495-98 circa; Vienna, Gemäldegalerie der Akademie der bildenden Künste); nell’Imbalsamazione di Cristo morto (1500 circa; Vicenza, Pinacoteca di Palazzo Chiericati), forse cimasa della medesima pala di Cotignola, e nel Cristo sul sarcofago (1500 circa; Vienna, Liechtenstein Museum), entrambi di evidente origine belliniana.
La personale ripresa di motivi e atmosfere lagunari suggerì la raffigurazione dell’abside a mosaico del trittico Becchi-Acconci nella citata cappella di S. Biagio in S. Girolamo (1495-1505), l’immersione veneto-belliniana nel paesaggio della Crocefissione e santi della Galleria degli Uffizi (inizi del XVI secolo) e l’impianto a spazio aperto, ancora a suo modo cimesco, della pala con la Madonna con il Bambino in trono tra s. Giovanni Evangelista e s. Caterina d’Alessandria nella cappella di S. Caterina dell’abbazia di S. Mercuriale (inizi del XVI secolo), ambiente per il quale eseguì anche gli affreschi (di cui rimangono lacerti) a decoro dell’invaso architettonico; per una vicina cappella, ora distrutta, ma l’opera è presente ancora nell’edificio sebbene in diversa collocazione, eseguì poi la pala con S. Giovanni Gualberto in adorazione del Crocifisso e la Maddalena che si distingue per la preziosa gamma cromatica.
Nella pala Corbici con la Madonna in trono che allatta il Bambino tra s. Antonio da Padova e s. Agostino, nella chiesa dei Ss. Nicolò e Francesco a Castrocaro (1500), l’esecuzione risulta tuttavia un po’ affrettata e la sagoma di S. Antonio appare ripetuta, ma dipinta a rovescio, in quella di S. Francesco, di buona fattura, appartenente a un’anta laterale.Si tratta di uno dei primi segnali di allentamento della ricerca figurativa dell’artista e di oscillazioni stilistiche tipiche di una pittura ormai collaudata che, anche per la collaborazione della bottega necessaria per far fronte alle numerose richieste, iniziò ad adottare ripetizioni iconografiche e montaggi esecutivi con passi differenziati fra le diverse parti.
Confermò in patria il ruolo di primo pittore la grande Comunione degli Apostoli (Forlì, Musei S. Domenico) del 1506, con la lunetta raffigurante la Pietà, poi tagliata in forma rettangolare (Londra, National Gallery; perduta è la predella). Dipinta per l’altare maggiore del duomo di Forlì, la pala fu esposta per la prima volta in occasione della venuta in città di papa Giulio II, nell’ottobre 1506.
L’importanza dell’opera è dimostrata dalla ricca bibliografia che la riguarda avviata in primis da Vasari (1568) che nella Vita di Jacomo Palma e Lorenzo Lotto riferì la pala a Nicolò Rondinelli, restituendola poco dopo a Palmezzano nella Vita di Girolamo e Bartolomeo Genga. A lungo il dipinto è stato ritenuto l’opera più significativa del pittore, ma la critica moderna è ormai concorde nel considerarlo uno degli esiti meno convincenti della sua maturità. L’insieme, monumentale, risulta compromesso da una spazialità angusta, resa dal faticoso accordo tra le figure, fra loro simili e assemblate a ginocchioni sul lato inferiore della tavola, e l’edificio retrostante che dovrebbe contenerle.
Nel linguaggio dell’artista l’ispirazione a modelli illustri si trasformò sempre più, con il passare del tempo, in un indifferente eclettismo, contrassegnato da formule cristallizzate che si espressero, pur con cura esecutiva, in figure dai caratteri uniformi e ripetitivi, in rapporti tra luci e ombre oramai schematici, in contesti architettonici e paesaggistici poco variati, anche attraverso l’ideazione di una serie di prototipi proposti spesso impiegando il medio formato. Spicca tuttavia per la complessa impostazione della scena e per l’innovativa iconografia legata al simbolismo della Concezione, la maestosa Immacolata con il Padre Eterno in gloria e santi (1510 circa), conservata, con cornice originale, nella cappella Ferri dell’abbazia di S. Mercuriale. Richiesta dall’abate di S. Mercuriale insieme ai priori della Confraternita del Corpus Domini e dell’Immacolata, la pala è composta dalla grande tavola centrale e dalla lunetta con il Cristo risorto, affiancata da due piccoli tondi con Profeti (la predella è stata trafugata nel 1985).
Ormai priva di aneliti di ricerca e sperimentalismi fu la produzione successiva, scandita da opere quali la Madonna con il Bambino in trono tra i s. Giovanni Battista e s. Filippo Benizi (Cesena, Galleria della Cassa di risparmio di Cesena) del 1510 circa; la Madonna con il Bambino in trono tra s. Bartolomeo e s. Antonio da Padova (1513; Forlì, Musei S. Domenico), dipinta per la cappella Denti nella chiesa della Ss. Trinità di Forlì (agli inizi del Settecento rimpicciolita e sagomata in sommità); la Visitazione nella chiesa di S. Antonio Abate in Ravaldino a Forlì (secondo decennio del XVI secolo); le figure di S. Rocco (1516 circa) nella cattedrale di Forlì e di S. Elena con la Croce (1516; Forlì, Musei S. Domenico), per la chiesa di S. Domenico a Bertinoro.
Datata 1514 è la tavola con l’Adorazione dei magi e, nella lunetta, la Disputa di Gesù fra i dottori, voluta da Naldo Naldi per la pieve di Rontana e ora nella collegiata di S. Michele Arcangelo a Brisighella.
Schematica e scarsamente espressiva nel suo insieme, nonostante la fastosità della decorazione, l’opera riprende i repertori figurativi della cappella Feo, confermando il ruolo del pittore, depositario di un’identità artistica locale sostanzialmente impermeabile alle novità emerse nel corso del primo decennio del secolo nelle vicine corti principesche.
Il primato di Palmezzano, fino ad allora intatto, iniziò a incrinarsi solo con l’avvento della maniera raffaellesca, nel secondo decennio del Cinquecento. Primo smacco alla sua autorità fu, nel 1518, l’assegnazione a Girolamo Genga, da parte dei Monsignani, dell’esecuzione degli affreschi per la decorazione della cappella Lombardini, nella citata chiesa di S. Francesco Grande. La pala Naldi si era posta però all’origine di una reiterata presenza dell’artista nella valle del Lamone dove è ancora in situ la grande ancona con la Madonna con il Bambino in trono fra angeli e santi (nella lunetta Dio Padre benedicente) dipinta per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria degli Angeli o dell’Osservanza di Brisighella (1520), opera stanca, dalla composizione affastellata.
La persistenza di moduli stilistici quattrocenteschi permea la Madonna con il Bambino in trono tra s. Severo e s. Valeriano e angeli musicanti (Forlì, Musei S. Domenico) dipinta dopo il 1520 per la cappella di S. Valeriano nel duomo di Forlì, con i due santi eseguiti secondo tipologie più volte riproposte dal pittore. Con modalità quasi industriali furono eseguite del resto le numerose repliche di temi già da tempo proposti, come il S. Girolamo nel deserto, il Cristo portacroce e la Sacra Famiglia.
Uno sforzo di aggiornamento nei confronti di episodi più recenti della cultura figurativa emiliana e veneta rivela la piccola Sacra Famiglia con s. Giovannino e s. Caterina d’Alessandria (Forlì, Collezione Fondazione Cassa di risparmio di Forlì), della fine terzo decennio, ma solo tardivamente, e soprattutto con poca convinzione, l’artista tentò un adeguamento a modelli genghiani.
L’artista si cimentò anche come architetto: nel 1506 fornì i disegni per tre cappelle, oltre alla cappella Lombardini, nella chiesa di S. Francesco Grande a Forlì; nel 1517 progettò l’ospedale dei Battuti Rossi, sempre a Forlì.
Morì a Forlì entro il 25 maggio 1539.
Il 29 marzo 1539 aveva steso il testamento in cui, oltre a nominare eredi la moglie Maria e i nove figli, chiedeva di essere sepolto nella chiesa di S. Domenico a Forlì.