Nell’estate 1502, Cesare Borgia, figlio naturale del Papa Alessandro VI e noto anche col nome di «Duca Valentino» (era stato nominato Duca di Valentinois dal Re di Francia Luigi XII), ha ormai terminato la riconquista della Romagna, strappandola alle ultime signorie che la dominavano ancora formalmente in nome della Chiesa. Subito dopo, lo spregiudicato e valente condottiero deve preoccuparsi di dotare questo territorio con aggiornate infrastrutture civili e militari. Il diffondersi delle armi da fuoco rendeva inoltre necessaria una completa revisione delle fortificazioni. Il primo ingegnere di Cesare Borgia in Romagna è probabilmente un tale Maestro Francesco Spezante, ricordato dal cronista cesenate Giuliano Fantaguzzi come colui che tra l’altro, verso agosto dell’anno 1501, volea condurre le barche da Cesenatico a Cesena, realizzando una sorta di naviglio. La carriera dello Spezante al servizio del Borgia terminò però bruscamente nell’aprile del 1502, quando l’ingegnere, mentre tentava di modificare il corso del fiume Savio, provocò un autentico disastro con la morte di alcuni uomini, e fu dunque prima incarcerato e poi allontanato.
È in questo momento che Cesare Borgia richiede l’intervento di Leonardo da Vinci. I due si erano già conosciuti a Milano nel 1499, al tempo della venuta del Re di Francia Luigi XII che aveva appena conquistato la città, dove Leonardo prestava servizio alla corte di Ludovico il Moro. Dopo un breve periodo a Venezia, dove aveva progettato fortificazioni contro i Turchi, Leonardo era poi tornato a Firenze. Leonardo era in attesa di proporre le sue competenze di «artista» – nel senso ampio e rinascimentale del termine – a qualche uomo di governo in grado di apprezzarle pienamente. a Cesare Borgia deve essere sembrato l’uomo giusto al momento giusto, e così, dal luglio 1502, troviamo Leonardo già insieme al Valentino; l’investitura sarà però ufficializzata solo con la lettera patente rilasciata il 18 agosto del medesimo anno. In questo documento – scoperto e pubblicato solo nel 1792 – è ben chiarito il compito che il Valentino affidava a Leonardo, definito suo «Architecto et Ingegnero Generale»: egli doveva «vedere, mesurare, et bene extimare», allo scopo di «considerare li Lochi et Forteze e li Stati nostri, Ad ciò che secundo la loro exigentia ed suo iudico possiamo provederli». Una ricognizione, dunque, al fine di individuare e progettare quelle opere militari e civili che avrebbero consolidato la signoria del Valentino in Romagna e permesso una efficace difesa contro i numerosi nemici esterni ed interni. Oltre al prezioso documento della lettera patente, possiamo conoscere questi pochi mesi del viaggio di Leonardo in Romagna solo grazie al cosiddetto Codice L, il taccuino sul quale appuntava promemoria e osservazioni fra il 1498 e il 1502. Leonardo scrive e disegna sul taccuino in modo del tutto personale e senza seguire l’ordine delle pagine. Nell’anno 1502 trascorso alle dipendenze del Borgia in Romagna, Leonardo riempie quasi tutto il Codice L di appunti su fortificazioni, scavi del terreno, problemi tecnologici, studi sul volo degli uccelli, il moto delle acque e note di aritmetica. Oggi il Codice L fa parte dei dodici «manoscritti di Francia» che Napoleone Bonaparte fece trasferire nel 1796 dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano alla biblioteca dell’Institut de France di Parigi.
L’entusiasmo del Valentino viene vivacemente descritto dalle parole del cronista Fantaguzzi, il quale al settembre 1502 annota che «El duca a Imolla stava in festa e gratava el celo con le unghe, insatiabille de regno, e danzava in maschara e schoperto, fortunato, contento e di gran bona voglia; e volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio, zecha, piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello». Cesena, con tutta probabilità designata dal Borgia come sede della corte, ebbe così in quel periodo la migliore occasione per divenire quella capitale che la Romagna, terra da sempre policentrica, non ha mai avuto.
La fortuna del Borgia, però, come quella del neonato ducato romagnolo, era destinata a declinare tanto rapidamente quanto fu veloce l’ascesa del giovane condottiero: ancora il Fantaguzzi annota che il Valentino, «non abiando bene ferma la rota, de’ volta e trabucollo col capo di sotta che prima». Leonardo, che oltre a sapere cogliere le leggi della natura era altrettanto abile ad interpretare i mutamenti politici, riuscì a slegarsi in tempo dalla rovina del Valentino, lasciando allo stato di semplici studi e annotazioni progetti ed interventi che avrebbero probabilmente segnato l’aspetto delle città romagnole oggetto della sua ricognizione.
E ora, uno sguardo sulle città romagnole ai tempi di Leonardo da Vinci...
Rimini
Leonardo arriva a Rimini l’8 agosto 1502. La sua principale attenzione è rivolta verso i congegni di escavazione dei fossati che aveva già osservato nelle Marche. Nella città romagnola fa riferimento al metodo di lavoro approntato dagli “omini di Rimini”, che vede rimuovere la terra durante l’opera di adeguamento delle vecchie difese fatte costruire da Sigismondo Malatesta.
A Rimini, Leonardo non si limita ad annotare le problematiche strettamente legate agli eventi bellici. La sua mente continua a spaziare anche su altri aspetti di carattere scientifico ed artistico, senza tralasciare la sua passione per gli strumenti musicali, che lo porta ad elaborare complessi sistemi acustici da impiegare per diletto nelle feste di corte, oppure utili all’uso militare come i tamburi meccanici. Suggestionato infatti dai movimenti d’acqua che vede nella fontana della Pigna posta in Piazza Cavour, si propone di fare un meccanismo sonoro che generi una melodia tramite differenti cascate d’acqua: “Fassi un’armonia colle diverse cadute d’acqua, come vedesti alla fonte di Rimini, come vedesti addì 8 d’agosto 1502”. Strumenti simili azionati dall’acqua erano in voga nel Rinascimento e oltre a quello citato si trovano altri appunti e disegni del genere nell’opera di Leonardo, che derivano anche da ispirazioni antiche filtrate da Vitruvio.
La fontana che vide Leonardo non era nelle forme attuali, che sono frutto di una ricostruzione della seconda metà del '500: in realtà, doveva essere come venne scolpita nel bassorilievo con la veduta della città in epoca malatestiana, situato nella cosiddetta “Cappella dei Pianeti” all’interno della Cattedrale di Rimini, più nota come “Tempio Malatestiano”.
Invece, in occasione della mostra Leonardo, Machiavelli, Cesare Borgia tenuta a Rimini nel 2003, fu realizzata una ricostruzione dell’organo idraulico di Leonardo (progettato dall’architetto Pier Luigi Foschi), ora esposta al Museo della Città.
Rimini, Ponte Tiberio
Pennabilli
La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, è un dipinto a olio su tavola di legno di pioppo.
Opera iconica ed enigmatica della pittura mondiale, si tratta sicuramente del ritratto più celebre della storia nonché di una delle opere d’arte più note in assoluto. Il sorriso quasi impercettibile del soggetto, col suo alone di mistero, ha ispirato tantissime pagine di critica e letteratura.
Chi era la Gioconda?
Leonardo è l’artefice di uno dei più clamorosi misteri della storia dell’arte: l’identità della Gioconda. La tradizione vuole che fosse Monna Lisa, moglie di Francesco del Giocondo, ricco mercante fiorentino che ne avrebbe commissionato il ritratto al pittore. Non esiste documentazione alcuna, oltre alla voce del Vasari. Lo storico Roberto Zapperi si è interrogato per anni sulla vera identità della donna dipinta da Leonardo da Vinci, arrivando a conclusioni davvero sorprendenti. Per tutti è Lisa Gherardini, moglie del mercante Francesco del Giocondo. Vasari lo racconta, e il mondo accademico gli crede. Tuttavia il letterato-umanista non ha nemmeno visto il quadro di cui parla, e i suoi commenti sono basati su voci vaghe e imprecise. E poi perché questa Lisa Gherardini avrebbe dovuto meritare un ritratto dall’artista più famoso del Cinquecento? Zapperi, documenti alla mano, non si è lasciato convincere da nessuna consuetudine e ha formulato la sua ipotesi. E’ un irriducibile: lo è sempre stato nella sua carriera, trascorsa all’Enciclopedia Treccani. Non ha in amore il mondo accademico; è assai più noto all’estero (il suo editore prediletto è tedesco), che non in Italia. Oggi, lo storico Roberto Zapperi dimostra ben altra identità per la misteriosa donna di Leonardo; la dama del ritratto è infatti Pacifica Brandani, dama di Urbino e amante di Giuliano dei Medici che, alla fine del 1400, fu ospite per più di un decennio alla Corte di Urbino. Dalla loro relazione nasce Ippolito, l’unico figlio di Giuliano, che diventerà poi cardinale. Pacifica, purtroppo, dopo due giorni dal parto, muore e Giuliano crescerà suo figlio a Roma. Per consolare il piccolo, che continuamente cercava la mamma, chiede a Leonardo un ritratto, con le fattezze della madre.
Per capire chi fosse realmente la donna del dipinto, lo studioso si è posto una semplice ma necessaria domanda: chi ha commissionato quest’opera a Leonardo? Dalle carte la risposta è stata certa: Giuliano de’ Medici, nobile colto, elegante, amante delle belle donne e della vita agiata. Amico del pittore, negli anni romani gli commissiona un ritratto di donna…
Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, e fratello del futuro papa Leone X, è un bambino «vivolino e frescolino com’una rosa, gentile, pulito e nettolino come uno specchio, lieto e tutto contemplativo con quegl’occhi». Crescendo, sviluppa una fine cultura letteraria e nel 1505 Elisabetta Gonzaga lo invita alla sua corte a Urbino. Lì risiede anche Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione e altri letterati dell’epoca. Giuliano è un libertino e, anche alla corte urbinate, è sempre a caccia di fanciulle con le quale potersi intrattenere. Secondo Zapperi ci sarebbe proprio una donna, conosciuta in questi anni, all’origine del mistero sull’identità della Gioconda.
Fra le sue relazioni, una più delle altre, gli sconvolge il cuore. Lei si chiama Pacifica Brandani; non è una popolana, ma una benestante, intelligente e forse vedova. Rimane incinta. Lui non è sicuro di essere il padre, pensando potesse essere «figliuolo d’un misser Federico Ventura suo concorrente nella pratica della gentildonna». Dopo il parto, l’amata muore. Un secondo prima di spirare, però, afferma che il bambino è figlio di Giuliano. Al pargolo viene dato il nome di Pasqualino, e, il 19 aprile 1511, viene esposto ancora in fasce nella chiesa di santa Chiara de’ Cortili ad Urbino, sede molto legata alla corte. Il piccolo, ricostruisce lo storico, «aveva addosso un panno bianco e una fascia con una moneta come segno di riconoscimento. Tre giorni dopo che era stato esposto, fu affidato a Bartolomeo di Giorgio e ad una balia.
Il notaio più importante della città, Lorenzo Spaccioli, interviene nella faccenda e, senza sentir ragioni, boicotta l’affidamento già stabilito, dichiarando di voler provvedere alle spese di mantenimento per i successivi quattro anni. Ma appena qualche mese più tardi, Giuliano de’ Medici bussa alla sua porta e riconosce il bambino come figlio naturale. Già che c’è, sceglie per lui un altro nome: Ippolito. Preso il piccolo, parte per Roma, e va da suo fratello maggiore, il futuro Papa Leone X. A Roma Ippolito piange e si lamenta, gli manca la mamma; almeno, secondo la ricostruzione di Zapperi, appoggiata anche da studiosi eccellenti, come, ad esempio, Augusto Gentili di Ca’ Foscari. Chiede di lei, ma nessuno sa consolarlo. Giuliano ha allora un’idea. Chiama Leonardo da Vinci che era alle sue dipendenze e gli chiede un dipinto da dare al bimbo, con le fattezze della mamma. Il ritratto è, quindi, commissionato per offrire al bambino un’immagine della mamma che non aveva conosciuto. Non si sa se si tratta di un ritratto reale, o basato su pure convenzioni. Ma Giuliano muore prima di poterlo ritirare; l’artista lo porta allora con sé in Francia, dove tuttora risiede, al Louvre. La tanto acclamata Lisa Gherardini lascia il posto a Pacifica Brandani.
Il professor Zapperi è convinto che la sua sia la ricostruzione quanto più vicina alla realtà: «Ho lavorato anni, e ho il vantaggio di essere uno storico, leggo i documenti, non mi occupo d’arte. Su Monna Lisa non ci sono testimonianze; su Pacifica, quelle del cardinal d’Aragona, da cui sappiamo che era un ritratto per Giuliano de’ Medici». Il mistero sull’identità della donna sembra, dunque, essere stato svelato.
I Vista Point della Gioconda
Dalla ricerca degli sfondi dipinti da Leonardo da Vinci e non solo, emerge una regola generale sui paesaggi che fanno da sfondo ai ritratti rinascimentali.
Ogni fondale ha un rapporto preciso con la persona ritratta.
Nel caso della Gioconda, un’ipotetica Monna Lisa toscana, avrebbe dovuto avere alle sue spalle un paesaggio fiorentino. Le ricerche del Prof. Zapperi che confermano le ipotesi del Prof. Pedretti, già ipotizzate nel lontano 1954 negli Studi Vinciani, identificando la Gioconda con Pacifica Brandani, ribadisce la correttezza della teoria Borchia & Nesci (2012) sul rapporto Paesaggio-Ritratto.
Infatti, alla luce della loro scoperta, dietro Pacifica è rappresentata una veduta aerea del territorio del Montefeltro, terra d’origine della giovane dama Pacifica e di suo figlio Ippolito.
Ma non solo. Verso l’estremo confine nord del Ducato, c’era un’isola o enclave toscana che, da un punto di vista geografico-politico, compenetrava nel Montefeltro. Ebbene, Leonardo introdurrà nel fondale dipinto anche questo lembo toscano, terra di Giuliano de Medici. Ancora una volta la tesi Borchia & Nesci viene confermata poiché identifica il fondale con la dama ritratta e lo ricongiunge anche agli altri due protagonisti di questa singolare storia.
Il paesaggio, contenuto all’interno del dipinto più conosciuto al mondo, non è certamente di facile comprensione, tenendo conto che abbraccia un territorio che, dalla Toscana, arriva fino al Monte Conero: l’intero Ducato di Urbino.
Attualmente, col contributo della Regione Emilia-Romagna e del Gal Montefeltro Sviluppo, ne sono stati realizzati due nel territorio di Pennabilli (RN) e Montecopiolo (PU): in località Il Roccione, e in località Monte Costagrande.
Questi primi due punti di osservazione raffigurano la parte destra del quadro, in particolare il primo tassello in basso mostra la zona del ponte sul fiume Marecchia e l’abitato di Pennabilli.
Veduta di Pennabilli
Cesenatico
Le origini di Cesenatico risalgono al 1302, quando fu scavato il Porto Canale e costruita una rocca a sua difesa. Il Porto Cesenatico (questo era il suo nome sino al raggiungimento dell’autonomia da Cesena ottenuta all’inizio del XIX secolo) era di grande importanza per Cesare Borgia, e più per ragioni militari che commerciali: con la sua fortezza rappresentava un presidio a difesa di una costa sin troppo vicina a Cesena, che allora era soprattutto un pericoloso confine dal quale potevano penetrare nemici, scorrerie piratesche e contagi.
Il giorno “6 di settembre 1502, a ore 15” Leonardo è a Cesenatico, intento a disegnare la planimetria del Porto Canale e, salito sulla torre malatestiana che si trova al margine del paese (parte dell’antica Rocca di cui rimangono alcuni resti), a schizzare la vista panoramica del piccolo borgo marinaro. I riferimenti espliciti a Cesenatico nel Codice L sono solo tre: due disegni, uno dei quali corredato da una data, e una nota di orientamento. Nella veduta di c. 68r, disegnata con tutta evidenza dalla sommità del mastio della rocca medievale posta a difesa del porto, sono individuabili un piccolo ponte con tre archi in posizione corrispondente a quello che un tempo si chiamava ponte di San Giuseppe e popolarmente “ponte del Gatto” (con riferimento alla fortificazione che sorgeva nei pressi), i pochi edifici presenti sulle sponde (di cui uno più grande, forse un magazzino, sulla sponda sinistra, e un altro con voltone in posizione circa corrispondente alla torre dell’orologio crollata nel terremoto del 1875), la curva del canale, i due moli guardiani, e il reticolo dei bacini delle saline sulla sinistra e sulla destra. Da notare che a causa del progressivo allontanarsi della linea di costa, i moli raffigurati da Leonardo erano in posizione molto arretrata rispetto a quella attuale, circa all’altezza dello “sperone” che si trova poco prima di piazza Ciceruacchio, segnalato oggi da una lapide.
Lo sbocco al mare, che era di rilevanza estrema per i commerci di Cesena, doveva essere assicurato attraverso la risoluzione dell'antico problema dell'insabbiamento del canale. Il sopralluogo di Leonardo era presumibilmente finalizzato a rendere più efficiente il porto, gestendo le maree per regolare il deflusso dell’acqua di mare e tenere libera l'imboccatura.
Modificò l’orientamento e la lunghezza delle singole palizzate e ampliò i bacini collegati, affinché l’acqua del mare potesse entrare e accumularsi, bloccata da paratie mobili, per poi defluire con rapidità durante le basse maree e col deflusso tener libero l’ingresso.
Il tema dell’acqua è ricorrente nelle ricerche scientifiche di Leonardo volte a carpire la vera essenza dei procedimenti che generano i fenomeni naturali.
Avverte la forza impetuosa di questo elemento che ricopre la maggior parte del globo arrivando a supporre che la superficie terrestre verrà inevitabilmente sommersa dalle acque: “Perpetui son li bassi lochi del fondo del mare, e il contrario son le cime de’ monti; séguita che la terra si farà sperica e tutta coperta dall’acque, e sarà inabitabile”.
L’acqua però è anche un elemento simbolico di grande fascino che possiamo osservare in molte sue opere o cogliere, come Giorgio Vasari, addirittura nell’espressione dello sguardo della Gioconda: “gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo”.
Il progetto rimase sulla carta, ma il Porto Canale Leonardesco di Cesenatico è, oggi, uno dei monumenti più importanti della città e passeggiare lungo il canale permette di godere appieno della bellezza architettonica e della calda atmosfera di questa località di mare.
Da non perdere la visita del Museo Galleggiante della Marineria, con le antiche barche da pesca e trasporto dell’Alto Adriatico ormeggiate con le vele “al terzo”, decorate con terre naturali e con i simboli delle famiglie dei pescatori, e la sezione a terra del Museo, di 3mila mq dedicata alle barche tradizionali, che -come detto all’inizio dell’articolo- di Leonardo conserva la riproduzione del celebre “Codice L”.
All’Antiquarium Comunale una nuova sala racconta i due “passaggi” a Cesenatico di Leonardo da Vinci e Giuseppe Garibaldi. Quello di Leonardo da Vinci, il 6 settembre 1502, per il sopralluogo al porto su incarico di Cesare Borgia, testimoniato dai due famosi disegni nel “Codice L”; e quello di Giuseppe Garibaldi insieme ad Anita e circa duecento seguaci, che il 2 agosto 1849 si imbarcarono su alcuni bragozzi nel tentativo di raggiungere Venezia. Due momenti molto brevi, ma importantissimi per la memoria collettiva e per la costruzione di una identità cittadina, che ora vengono raccontati in una nuova apposita saletta all’interno dell’Antiquarium Comunale, il museo che raccoglie le testimonianze archeologiche e storiche di Cesenatico e del suo territorio situato nell’edificio della ex Casa di Riposo per Anziani adiacente al Museo della Marineria, al cui percorso di visita è collegato internamente.
All’interno della saletta, una vetrina mostrerà anche la riproduzione del “Codice L” con i disegni di Leonardo, mentre sul versante “garibaldino” verranno esposte alcune fotografie ed oggetti dall’archivio di Repubblica Fadigati, donato dal nipote Maurizio Carati, che testimoniano la vicenda personale di una donna profondamente legata per ragioni familiari e ideali alla figura di Giuseppe Garibaldi.
Porto Canale Leonardesco di Cesenatico
Cesena
Il 10 di agosto 1502 Leonardo è già nella città ducale di Cesena, città che Cesare Borgia voleva ampliare, collegare con un canale navigabile al porto Cesenatico e rendere degna sede del suo Ducato. I progetti del Valentino per questa città erano molti: un palazzo ducale, il canale navigabile sino a Cesenatico (il fatto che dica semplicemente «canale» lascia pensare che fosse un progetto ben noto), il tribunale, l’università, la zecca, una piazza d’armi, accrescere la città, fare una fontana nella piazza, portarvi la duchessa, cioè la moglie Charlotte d’Albret che era rimasta in Francia, stabilire una corte, eseguire lavori importanti sul Porto Cesenatico, già scavato e funzionante dai primi anni del XIV secolo, ma che necessitava interventi.
Il soggiorno di Leonardo si prolunga oltre il mese, probabilmente fino all’autunno inoltrato, compiendo in questo lungo periodo una serie di misurazioni dettagliate della cinta muraria malatestiana, delle fortificazioni poste sul colle Garampo e non solo, perché altre cose osservate a Cesena e nel territorio circostante stimolano la sua curiosità.
A Cesena, Leonardo deve occuparsi prima di tutto di opere difensive, compito che adempie rilevando le mura cittadine, che troviamo infatti alle cc. 9v-10r del Codice L in una planimetria con accanto una tabella di misure di lunghezza orientate, precedute da un altro sommario rilievo quotato a c. 9r, secondo lo schema già visto per le mura di Urbino.
Per scoprire le mura antiche di Cesena, si inizia da Porta Fiume, accesso urbano occidentale già esistente nel XII secolo, ma che nelle forme attuali risale al 1491. Si tratta dell’unica torre di controllo superstite delle due collocate agli estremi del Ponte di San Martino, che scavalcava il fiume Savio; su di essa sono ancora visibili la merlatura ghibellina, le feritoie e le canne fumarie per le bocche da fuoco.
Da Porta Fiume si segue quindi il perimetro verso nord, lungo via Porta Fiume e si prosegue verso via Mura Federico Comandini, sulle mura a ridosso dei Giardini di Serravalle: i torrioni che le costellano conservano ancora le tracce delle arcate e del camminamento sopraelevato che li congiungeva. Nel 1502 questo tratto fu disegnato da Leonardo da Vinci insieme al resto del perimetro fortificato, per adeguare il sistema di difesa all'uso delle armi da fuoco pesanti.
Si arriva così in zona Porta Trova (oggi scomparsa) e si prosegue verso la Barriera Cavour, ex Porta Cervese (che infatti è posta in direzione Cervia), di cui sono ancora visibili, al piano interrato dell’attuale bar, i resti del barbacane del corpo di levante.
Proseguendo verso Est lungo le mura si incontrano i Giardini Savelli, oggi suggestiva location estiva per concerti e aperitivi, e il Torrione Beluxorum, elemento poligonale d'angolo delle mura Malatestiane, costruito nel 1452.
A breve distanza si trova Porta Santi, detta anche Porta Romana, perché posta sulla strada per Roma: menzionata già alla fine del sec. XIV, fu ristrutturata nella prima metà del Quattrocento e nel 1819 monumentalizzata nelle forme attuali su progetto dell’architetto Curzio Brunelli, in onore del papa cesenate Pio VII, come testimoniano l’iscrizione e gli stemmi.
Lungo le mura sud, lasciati sulla destra i Giardini Pubblici, si incontra la Portaccia, una porta fluviale posta a difesa dell'ingresso in città dal torrente Cesuola. Tracce della merlatura sono ancora oggi visibili nei due corpi di fabbrica, uniti da una volta a botte dalla quale veniva calata la grata di sbarramento. Anche qui, mentre la si attraversa, ci si può immaginare Leonardo da Vinci mentre, all’inizio del ‘500, faceva i tutti rilevamenti utili per stabilirne le esatte dimensioni.
Dalla Portaccia conviene addentrarsi nel centro storico di Cesena, raggiungendo la splendida piazza del Popolo. Oltre a Palazzo Albornoz, sede del Municipio, e alla Fontana del Masini, gioiello del tardomanierismo / proto-barocco, vi si affaccia la Rocchetta di Piazza. Elemento del sistema difensivo della cittadella detta “Murata”, la struttura è composta dalla Loggetta Veneziana, dal torrione poligonale opera dell'architetto Matteo Nuti e dal muro con camminamento superiore che univa il torrione di piazza alla Rocca Malatestiana.
Varcando l’arco della piazza – anticamente Porta dei Leoni – si percorre una strada a scalette che porta alla piazzetta Cesenati del 1377 e si allunga su via Malatesta Novello, una strada in salita che conduce a Porta Montanara (immortalata nelle parole del grande letterato Renato Serra e oggi scolpite su una targa a lato della Porta) e alle rovine della Rocca Vecchia, detta del Barbarossa. Da qui si percorre via Cia degli Ordelaffi, costeggiando lo Sferisterio, e si arriva al portone d’ingresso della Rocca Malatestiana, che merita una visita al suo interno. Alcuni disegni del Codice L testimoniano l’attenzione di Leonardo per le fortificazioni cesenati, a partire dalla rocca, ritratta nello schizzo a c. 15v con le sue rampe d’accesso a tornanti, e ben identificata dalla scritta «rocca di Cesena».
Stupisce invece, l’assenza anche solo di un piccolo cenno di Leonardo alla Biblioteca Malatestiana, che pure non avrà mancato di visitare e forse anche di consultare, a maggior ragione dopo aver invece voluto annotare la «libreria» di Pesaro.
Completa la visita di Cesena una trasferta – in automobile, moto o anche bicicletta – a Villa Silvia-Carducci, sui colli fra Cesena e Bertinoro, in località Lizzano. Qui si può ammirare, nell’originalissimo Museo Musicalia, uno dei primissimi esempi di strumento musicale meccanico della storia: il tamburo meccanico di Leonardo Da Vinci. Ideato per scopi pratici e militari, questo marchingegno era montato su grandi ruote e azionato con una manovella e serviva per dare il tempo alla marcia dei soldati, sostituendo così i tamburini in carne e ossa. L’esemplare in possesso del Museo Musicalia è stato costruito a partire dai disegni originali di Leonardo.
I meandri del fiume Savio e il progetto del canale per Cesenatico
Nel Codice L troviamo anche le tracce del possibile o probabile coinvolgimento di Leonardo in alcune opere pubbliche, in primo luogo il raddrizzamento del fiume Savio: in c. 36v, insieme alla data di «mezz’agosto», è presente proprio un disegno di ansa di fiume con un tratto di penna che sembra suggerire un’ipotesi di rettifica; lo stesso avviene a c. 32v, dove c’è anche un’annotazione sul corso dell’acqua nelle tortuosità dei fiumi; e ancora anse fluviali sembrano essere quelle disegnate a c. 71v.
Il 15 agosto, “el dì di Santa Maria mezzagosto a Cesena 1502”, Leonardo da Vinci, oltre a rilevare i dettagli di un fortilizio cesenate e disegnare una carrucola, in una nota posta a lato delle anse di un fiume disserta sul comportamento dell’acqua: “Quanto men curva sarà l’argine dove ripercote il salto del fiume, tanto il secondo salto fia più remoto dal sito donde il primo si partì.”
Le riflessioni di Leonardo trovano riscontro con un tragico evento accaduto poco prima del suo arrivo a Cesena nel fiume Savio e riportato dal cronista locale Giuliano Fantaguzzi. Infatti, in un tratto del fiume Savio perirono sei persone che su disposizione di uno sprovveduto ingegnere eseguivano i lavori di scavo per deviare il corso d’acqua nei pressi del borgo di Martorano.
La ricerca di Leonardo non si limita a sviluppare indagini sul comportamento dei fluidi e ad elaborare sistemi di regolazione delle acque e di canalizzazione dei fiumi. L’osservazione dei fenomeni naturali lo spinge a riflettere anche sulla natura degli uomini, paragonando lo scorrere della vita al fluire dei fiumi.
“L'acqua che tocchi de' fiumi è l'ultima di quella che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente”.
Con questa frase Leonardo sottintende che in un punto del corso d'acqua il prima e il dopo possono coincidere e ogni fine è anche un inizio, come lo è il tempo per l’uomo che appropriandosi del passato attraverso i ricordi ha la facoltà di proiettare i momenti trascorsi verso il futuro.
Nella “lista delle cose da fare” a Cesena del Valentino c’era anche un «canale», e la circostanza è confermata da un’altra nota che riferisce che «lo ingegnero del Duca volea condure le barche dal Cesenatico a Cesena». Sarebbe bello cedere subito alla tentazione di identificare l’«ingegnero del Duca» con Leonardo, ma c’è un problema: la nota è del 1501, quando Leonardo si trovava a Firenze e a Cesena era ancora impegnato lo Spezante, prima di combinare il guaio sul fiume Savio al principio dell’anno seguente. Dato l’impegno nel proseguire il lavoro sull’ansa del fiume, sembra tuttavia plausibile che possa esserci stato un analogo interessamento da parte di Leonardo anche sul progetto del canale navigabile, ben più meritevole delle sue attenzioni in virtù delle sue competenze, esperienza e motivazioni in materia di idraulica. Molti studiosi di Leonardo ribadiscono l’attribuzione al progetto del canale dei numerosi appunti su scavi di terreno e disegni di macchine che si ritrovano nel Codice L e altri manoscritti, giungendo alla conclusione che Leonardo abbia dedicato gran parte del tempo trascorso in Romagna a questo progetto.
Possiamo pensare al progetto del canale da Cesena al mare come a una grande impresa, e indubbiamente lo era in termini economici e organizzativi, ma tuttavia non così eccezionale: la via normale delle merci è sempre stata sull’acqua (e lo è ancora oggi sui lunghi percorsi), e tutte le città principali della pianura padana disponevano di porti e navigli. Un canale navigabile da Cesena al Porto Cesenatico – di dimensioni simili ad altri analoghi, come il Navile a Bologna, non più larghi di qualche metro e sufficienti al traino di barche da parte di animali sulle alzane – era relativamente facile da realizzare, grazie alla distanza breve e all’assenza di ostacoli naturali, senza dover affrontare l’attraversamento di fiumi o altri canali, ma anzi approfittando magari del corso di alcuni di essi. Il problema principale, come vediamo infatti negli appunti di Leonardo messi in luce dai due studiosi, era proprio quello di trovare il modo più efficace di scavare e spostare la terra.
Cesena, Piazza del Popolo
Sogliano al Rubicone
Dedicato al “periodo romagnolo” è il piccolo museo di Leonardo da Vinci a Sogliano al Rubicone, in provincia di Cesena, che si propone di illustrare le caratteristiche del territorio e le sue tradizioni attraverso le osservazioni e le analisi di questo straordinario uomo d’ingegno.
Il Museo è articolato in due sezioni: una scientifica e una etnografica.
La prima documenta, attraverso l’esposizione di copie anastatiche di manoscritti, studi, disegni ed appunti, le analisi inerenti aspetti di fisica, di meccanica e idraulica, svolte da Leonardo durante il suo soggiorno in Romagna. Si mostrano i rilievi delle città e delle fortificazioni che Leonardo intendeva ammodernare, si mettono in evidenza gli usi e costumi della gente romagnola e le soluzioni tecnologiche utilizzate in quel periodo.
La seconda presenta gli studi sugli usi e costumi della tradizione popolare romagnola del XVI secolo, con particolare riferimento al tema dell’acqua, del suono e della natura. Qui si segnala la presenza dei modelli e delle immagini delle “concavità” realizzate nel parco San Donato.
Oltre al Museo, dal centro storico di Sogliano, inizia il Cammino di Leonardo, un percorso di circa 7 km dedicato alla riscoperta del territorio circostante e delle preziose opere lasciate dall'artista.
L’ultima tappa del Cammino si trova in corrispondenza del grande manufatto dell’Uomo Vitruviano, realizzato in base ai disegni di Leonardo da Vinci prima di entrare nel paese di Sogliano al Rubicone.
Sempre nel comune di Sogliano al Rubicone, nella vicina località Vignola, all’interno del parco pubblico San Donato sono state realizzate due “concavità”, basate sulle osservazioni compiute da Leonardo sul sistema per amplificare i suoni emessi dai corni utilizzati dai pastori romagnoli dell’epoca per comunicare a distanza fra loro.
Cotignola
L’avventura della famiglia degli Attendolo, facoltosi agricoltori originari di Cotignola, iniziata con Giacomo, condottiero e capitano di ventura e Conte di Cotignola, sopranominato Muzio Attendolo Sforza prosegue con il figlio Francesco I Sforza, anch’egli condottiero di compagnia di ventura, che nel 1450 diverrà Duca di Milano.
Francesco I Sforza e la moglie Bianca Maria Visconti figlia legittimata di Filippo Maria Visconti, ultimo Duca di Milano della dinastia viscontea, introdussero importanti riforme economiche ed agricole, avviarono significativi rinnovamenti nella città che diventerà poi la sfarzosa residenza ducale del figlio Ludovico Maria Sforza detto il Moro.
Il legame di Ludovico il Moro con il paese d’origine del suo casato si manifesta nel 1495 attraverso l’assegnazione del titolo di città a Cotignola.
Arrivato a Milano nel 1482 alla Corte di Ludovico il Moro, Leonardo da Vinci inizia a svolgere gran parte della sua opera di artista e di scienziato quasi ininterrottamente fino al 1499, quando l’instabilità politica, dovuta alla conquista del Ducato di Milano da parte del re di Francia Luigi XII, lo costringe ad abbandonare la città e a interrompere ogni progetto. Il suo commento sulla capitolazione di Ludovico il Moro è lapidario: “Il Duca [ha] perso lo stato, e la roba e la libertà, e nessuna sua opera si finì per lui”.
Nel periodo trascorso alla corte milanese l’illustre maestro è impegnato come consulente per opere architettoniche, occupato in straordinari lavori di idraulica e di regimazione delle acque dei navigli, progetta macchinari, monumenti equestri e completa capolavori di pittura come la Vergine delle Rocce, la Dama con l’Ermellino, la Belle Ferronnière, la celeberrima Ultima Cena.
E proprio nella lunetta centrale del Cenacolo, Leonardo allude alla cittadina romagnola inserendo in un festone le mele cotogne, il simbolo nobiliare della famiglia Sforza, ricordo del “Pomo cotogno” delle insegne di Muzio Attendolo ed emblema della città di Cotignola dove questi era nato.
Cotignola, Chiesa del Suffragio
Faenza
Faenza dà del filo da torcere al Borgia, che la assedia nel novembre 1500 restando però bloccato dalla neve e dal freddo per tutto l’inverno e riuscendo ad averne ragione solo nell’aprile 1501. Possiamo considerare una tappa di Leonardo anche nella città di Faenza, forse compiuta nel periodo intercorso tra la partenza da Cesenatico e l’arrivo a Imola. Nel suo libretto d’appunti annota una serie di distanze tra le città allineate lungo la Via Emilia e, tra queste “Faenza sta con Imola tra levante e scirocco in mezzo giusto a 10 miglia di spazio.” Questa nota è l’attestazione di una parte del grande lavoro di perizie estese a tutta la regione, dati che concorreranno a fargli disegnare una magnifica carta geografica con i dettagli della Romagna, conservata a Windsor nella Royal Academy di Londra.
Sembrava tuttavia che Leonardo non avesse lasciato altro che questa singola menzione alla città manfreda, fino al 1969 Antonio Savioli ha riproposto e consolidato l’identificazione – oggi generalmente accolta – del disegno presente in alto a c. 15v con la cattedrale di Faenza. Il bozzetto denota l’attenzione costante riservata alle tematiche dell’architettura, sia civile che militare o, come in questo caso, ecclesiale, dove forse si può percepire un richiamo alla Cattedrale in fase di completamento a Faenza, opera dell’architetto Giuliano da Maiano.
Un riferimento indiretto e forse più significativo, perché testimonia la notorietà delle sue ceramiche già a quel tempo, si trova inoltre nelle osservazioni di carattere geologico presenti nel Codice Leicester – riportate più avanti – nelle quali Leonardo accenna alla «terra da far boccali» e «terra da far vasi» della «Val di Lamona», cioè del fiume Lamone. Leonardo si addentra nell’area collinare romagnola e risalendo la Valle del Lamone ha la possibilità di apprezzare la “terra da fare boccali” della rinomata ceramica faentina. Non è un caso che in tutto il mondo per indicare la maiolica venga usato il termine francese “faïence” dal nome di Faenza, e proprio la città ospiti all’interno del MIC – Il Museo Internazionale delle Ceramiche la più estesa raccolta tipologica esistente dedicata a questa antica arte. Disquisendo sulla geologia ed i fenomeni naturali della formazione terrestre, accenna ai pregiati boccali che si fabbricavano con le “terre azzurrine” nella Signoria che prima di essere sottomessa al Borgia era governata dai Manfredi.
Un altro riferimento alla Romagna è presente nel brano successivo, il 10 recto, in cui è ricordato il paesaggio argilloso, percorso da calanchi (vd. i calanchi a valle della Vena del Gesso Romagnola), caratteristico della Val Lamone e si accenna alla produzione faentina di ceramiche o, per meglio dire, di "boccali". Infine, se si confronta il brano 36 recto con i precedenti, ci si avvede di come Leonardo possedesse già il concetto di stratigrafia e potesse riconoscere bene tre unità rocciose: le formazioni Marnoso - arenacee e Gessoso - solfifere, le argille azzurre e le terre alluvionali pedemontane, che egli nomina, rispettivamente, "falde dalle pietre vive", "azzurrigno terren di mare" e "terra comune". Accanto al brano finale 36 recto, a corredo visivo dell'annotazione, Leonardo traccia uno schizzo stratigrafico. La particolare geologia del basso Appennino faentino tagliato dal fiume Lamone è osservata e descritta da Leonardo: “… e il segnio di ciò si vede dove per antico li Monti Appennini versano li lor fiumi nel mare Adriatico, li quali in gran parte mostrano infra li monti gran somma di nichi insieme coll’azzurrigno terren di mare”, “… e nel congiungersi colle pianure, le predette falde son tutte di terra da fare boccali, come si dimostrano, in Val di Lamona, fare al fiume Lamona…”.
Meritano una visita gli anfiteatri naturali di argille azzurre che si aprono fra Brisighella e Riolo Terme e hanno reso celebri nel mondo le belle ceramiche di Faenza. L’argilla è la materia prima fondamentale per la produzione di ceramica: i manufatti per uso domestico e le opere artistiche delle storiche botteghe artigiane di Faenza, i materiali da costruzione (piastrelle e laterizi) e le nuove tecnologie. I geologi moderni interpretano le rocce e i fossili (i ‘nichi’ leonardeschi) come la fine della “crisi di salinità messiniana”: i 700 mila anni durante i quali le acque del Mediterraneo rimasero separate dall’Oceano Atlantico e andarono gradualmente concentrandosi. La riapertura dello Stretto di Gibilterra e la catastrofica conseguente inondazione del Mediterraneo, datata circa 5,3 milioni di anni fa, segna l’inizio del Pliocene e il veloce ripopolamento di organismi di mare abbastanza profondo del Mediterraneo tornato ad una salinità normale. L’estesa depressione padana (nata alla fine del Miocene) rioccupata dal mare, si trasformò in un ampio golfo, delimitato a nord dalle Alpi ed a sud-sud ovest dai settori già emersi della catena appenninica. I depositi di argille azzurre documentano l’antico fondale fangoso che ricoprì gran parte del bacino padano e dell’attuale basso Appennino Romagnolo da allora alla fine del Pleistocene Inferiore (poco meno di un milione di anni fa). I depositi di sabbie gialle sono invece i resti delle spiagge fossili dove iniziava la terraferma che a quel tempo ospitava ippopotami, elefanti, rinoceronti e i primi ominidi. Le colline della Romagna conservano le più antiche tracce di attività umane documentate in Italia: industrie litiche di 950 mila anni fa risalenti al Paleolitico Inferiore.
Castel Bolognese
Quando il Castello, che prende il nome di Castel Bolognese, venne costruito nel 1389 dal Senato di Bologna, fu provveduta la costruzione di mura resistenti e di una porta, nonché di un fossato difensivo. Questo primo nucleo, destinato successivamente ad ingrandirsi, corrispondeva all’attuale percorso di Via Roma, Via Antolini, Piazza Fanti, Piazza Bernardi (ove sorgeva la torre di Giovanni da Siena che fungeva da porta), Via Ginnasi, Piazzale Poggi. Il castello misurava m. 125 x 222 con un perimetro di circa m. 700 e la sua distanza dalla via Emilia era di circa 90 metri. La comunità insediatasi nel castello si ingrandì presto, tanto da formare un borgo a ridosso della porta d’accesso. Per difendere anche queste case, le mura vennero ampliate nel 1425, racchiudendo pure un tratto di Via Emilia. Il castello, ormai persa la sua funzione difensiva e di avamposto bolognese, divenne città murata, le cui dimensioni erano di m. 222 x 310 per un perimetro di circa 1.100 metri. Le porte d’accesso furono due, entrambe a cavaliere della Via Emilia, e poste l’una verso Faenza e l’altra verso Imola. Furono costruiti bastioni angolari e rinforzata la rocca che Antonio di Vincenzo aveva edificato nel 1391. Le mura del vecchio castello rimaste all’interno della nuova cinta furono demolite, il ponte d’accesso alla vecchia porta ed il fossato intercluso furono interrati. La tradizione ricorda che nel 1434 i Bolognesi provvidero a rinforzare il nuovo castello; tuttavia un documento trovato nell’archivio notarile di Faenza ritarderebbe di quasi cinquant’anni questi lavori: in un contratto del 23 agosto 1481 Rinaldo Quarneti vende a Pietro di Milano macerie e 600 corbe di calcina per la costruenda nuova rocca di Castel Bolognese, e Giovanni Pallantieri vende a detto Pietro 20.000 mattoni di cotto e 200 corbe di calcina. Potrebbe dunque risalire a quest’epoca il misterioso disegno dei lavori di riparazione alla rocca di Castel Bolognese, conservato nell’archivio di Stato di Bologna, che alcuni attribuiscono a Leonardo da Vinci, il quale qui avrebbe sostato al seguito di Cesare Borgia che inferse una prima, violenta offesa alle mura cittadine nel 1501. Il Valentino fece atterrare la rocca e le mura, fece riempire il fossato che ne circondava il perimetro e ordinò che la località non fosse più chiamata Castel Bolognese, ma Villa Cesarina. Passato il Borgia, le mura e i torrioni furono restaurati e ricostruiti a partire dal 1506. Altri restauri furono compiuti alla cinta muraria nel 1582, nel 1585 e nel 1601. Ormai privi di funzione difensiva torrioni e mura furono adibiti ad altri usi, abitazioni, pareti maestre per case, o muri di confine per le seconde. Inizia così la lenta decadenza del sistema difensivo cittadino.
Nel 1865 il Comune decise l’abbattimento delle porte, poi eseguito nel 1876, giustificando il provvedimento con la necessità di allargare la strada principale per consentire una viabilità più agevole. La demolizione delle mura proseguì nel 1896/97 quando esse, ad eccezione di quelle a nord, furono abbassate fino all’altezza di un metro. Uniche opere di rilievo fra tanto degrado sono state il restauro compiuto nel 1983 a cura della Soprintendenza di Ravenna e del Comune di Castel Bolognese al torrione ed al tratto di mura di fronte all’ospedale, ed alcuni interventi di conservazione eseguiti dai privati proprietari, come il lodevole restauro del bastione di nord-est, dei resti della rocca ed a tratti di mura. In Via Pallantieri le mura stanno affiorando, mentre si attende il restauro del torrione sudovest, anch’esso di proprietà privata, il più antico della cerchia muraria, risalendo alla primitiva costruzione del secolo XIV.
Imola
Leonardo da Vinci fu a Imola nell’autunno 1502, fino alla fine di dicembre. La città era un campo militare dove erano ammassati uomini e armi nel progetto del Valentino di attaccare Marche, Umbria e Toscana. Il Valentino si sentiva al sicuro a Imola, munita di una fortezza poderosa come la Rocca Sforzesca; se Cesena era stata scelta come capitale del ducato e sede della corte, Imola ne era il corrispettivo militare, come mostra anche l’appunto sopra citato del Codice L dove viene presa come punto di riferimento per distanze e orientamenti dalle altre località Romagnole. Il raffronto delle distanze tra Imola ed alcune città romagnole che Leonardo riporta ai margini della rappresentazione della mappa di Imola e che riprende anche nel Codice L, è dimostrazione dell’attività da lui svolta per redigere rigorose cartografie utili a garantire il controllo armato del territorio. In quest’ottica la Rocca era elemento fondamentale per la difesa della città e in un foglio conservato a Windsor, la sua struttura è rappresentata ben tre volte con alcune varianti a testimonianza dell’attento studio sulla fortezza. L’antica struttura difensiva medievale della Rocca aveva subito lavori di ammodernamento a partire dal 1471, dopo il passaggio di Imola alla signoria degli Sforza. Con la conquista nel novembre del 1499 da parte di Cesare Borgia, la Rocca aveva subito danni considerevoli e Leonardo si occupò anche di progettare migliorie per la fortezza imolese, purtroppo mai realizzate. Oggetto della sua analisi fu anche il territorio della città. Nella mappa leonardesca di Imola, la Rocca spicca per esattezza della riproduzione, sovrapponibile allo stato attuale: dai torrioni angolari, ai due rivellini esterni con i relativi ponti, fino al palazzetto nel cortile del Soccorso.
Il documento principale che lega Imola a Leonardo non è però il Codice L, ma la famosa mappa della città conservata alla Royal Library di Windsor: un’opera di straordinario valore cartografico e artistico. La mappa di Imola è però soprattutto il testimone più efficace che conferma e manifesta nei suoi esiti finali l’attenzione di Leonardo per una precisa rappresentazione cartografica delle città e del territorio del ducato di Cesare Borgia, che abbiamo già visto nelle sue fasi preliminari nei rilievi del Codice L riferiti a Urbino, Cesena e Cesenatico. Leonardo si dedicò alla rappresentazione zenitale della struttura urbana, utilizzando una tecnica di assoluta modernità, inscrivendo il territorio urbano in un cerchio ripartito in otto settori corrispondenti ai punti cardinali. La città è divisa in quartieri, il disegno definisce gli isolati, il perimetro dei singoli edifici e gli spazi verdi con meticolosa attenzione. Spiccano le mura perimetrali, le porte della città e quindi l’estremo baluardo difensivo della Rocca. Sfugge all’uso strettamente conoscitivo e militare della mappa la sensibile attenzione alla geologia del paesaggio, rivelando, nell’elegante ansa del fiume che arriva quasi a lambire la città, il gesto pittorico della mano che tratteggia in azzurro il percorso dell’alveo fluviale.
Imola, pianta di Leonardo